La differenza sta in un coltello. Quando Marianna
lo vede, la prima volta, era il 13 maggio 2007 e un brutto
presentimento le attraversa la mente. Si spaventa, lo denuncia, “con
quel coltello mi ucciderà” disse ai carabinieri. Ma non serve.
Sarà quel coltello ad ucciderla pochi mesi dopo, il 3 ottobre, mamma
di tre bimbi, moglie uccisa dal marito.
Lui si chiama Saverio Nolfo, lo
presero quasi subito e non fu difficile per il tribunale di
Caltagirone condannarlo a vent’anni per omicidio volontario. I tre
bimbi, allora di 3,5 e 7 anni, sono stati nel frattempo adottati,
vivono con serenità altrove e chiamano “papà e mamma” i nuovi
genitori (lontani parenti di Marianna) e “fratelli” i tre figli
naturali della coppia adottiva.
E’ una tragedia lontana quella
tornata nelle cronache a metà giugno. L’ennesimo femminicidio di
cui sono state però punite le colpe dirette – quelle del marito -
e anche quelle indirette, cioè dei giudici e di quell’apparato di
sicurezza che sembra ancora oggi non essere in grado di capire e
prevenire nonostante gli sforzi del ministero dell’Interno sulla
formazione del personale e le modifiche al codice penale. Il capo
della polizia prefetto Franco Gabrielli la scorsa settimana audito
alla Camera spiegò come non sia possibile dare una scorta a tutte le
donne che temono aggressioni e violenze da mariti o ex compagni.
Vero, certamente. Il fatto è che anche Donata, 48 anni, Maria, 49,
Manuela , 25, una donna romena di 48 anni e una italiana di 81, chi
più chi meno avevano gridato, chiesto aiuto, denunciato magari con
vergogna le loro paure. Le hanno ammazzate tutte in 48 ore, tra
Bari, Salerno, Cagliari, Roma, Montepulciano. E allora gli apparati
dello Stato, di sicurezza e giudiziari e sociali, dovrebbero mandare
a mente le 31 pagine della sentenza della I sezione civile del
Tribunale di Messina che ha condannato al risarcimento (per 260 mila
euro) i giudici che dieci anni fa non seppero ascoltare Marianna.
Pagine che sono la cronaca di dodici mesi di minacce e paura. Di
dodici denunce rimaste inascoltate, comunque sottovalutate.
Trenta pagine da
imparare a memoria
La sentenza firmata dal presidente
Caterina Mangano è destinata a fare storia. A dettare la
giurisprudenza. Soprattutto a dare speranza. Perché, come si legge,
“i giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine
rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna
misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno
commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile”.
E’ il risultato della vecchia (1988) legge Vassalli che va a
combinarsi con la più recente modificata nel 2015. Il messaggio è
chiaro: mai più sottovalutare alcunché. Anche da parte della
vittima.
Carmelo Calì, così si chiama il
lontano cugino di Marianna che prende in carico prima e poi adotta i
tre ragazzini, inizia la sua battaglia nel 2012: sono passati 5 anni
dall’omicidio, la pratica per l’adozione si è conclusa, è tempo
di chiudere l’unico conto in sospeso perché gli altri – il
dolore, la mancanza, lo choc – non sono calcolabili e quindi mai
risarcibili. E’convinto, Carmelo, che “la procura della
Repubblica di Caltagirone nulla abbia fatto per impedire la
consumazione dell’omicidio di Marianna” nonostante la donna abbia
presentato “tra settembre 2006 e settembre 2007 dodici querele nei
confronti del marito autore di violenze fisiche, aggressioni e
minacce”. La causa civile è promossa contro la Presidenza del
Consiglio dei ministri che per i primi tre anni chiede e ottiene la
non ammissibilità della causa. Carmelo, affiancato dagli avvocati
Alfredo Galasso e Licia D’Amico, insiste finchè la Cassazione gli
dà ragione e ordine al tribunale di Messina di procedere. E’ il 17
luglio 2015.
Quante volte Marianna aveva chiesto
aiuto. Caterina Mangano, presidente della prima sezione, le mette
tutte in fila, una dietro l’altro, 12 querele in 12 mesi. Ne viene
fuori la trama sottile di un delitto annunciato.
Dodici denunce in dodici mesi
La prima volta è il 27 settembre
2006, stazione dei carabinieri di Palagonia. Saverio, il marito di
Marianna, ha problemi di tossicodipendenza, e lei lo denuncia per
“violenze fisiche e maltrattamenti”. Il pm, una donna, prende sul
serio la cosa e chiede ed ottiene dal gip la misura cautelare
dell’allontanamento dell’uomo dalla casa di famiglia. Attenzione
alle date: il 10 ottobre, poco dopo la denuncia, Marianna chiede la
separazione. Due strade, il penale delle querele e il civile per la
separazione, destinate ad incrociarsi e condizionarsi. Mentre Saverio
è allontanato da casa, a quanto pare ben assistito dai suoi legali,
produce un certificato del Sert dell’Asl da cui risulta
“l’inesistenza di uno stato di tossicodipendenza” tanto che il
19 dicembre 2006 ottiene l’affidamento dei figli in via provvisoria
con diritto di visita della madre. Il motivo dell’affidamento è in
queste parole del presidente del Tribunale: “Constatato il timore
dei figli alla vista della mamma in aula”. A margine
dell’affidamento vengono richieste le solite perizie e relazioni ai
servizi sociali i quali certificano “la capacità e la
disponibilità di entrambi i genitori ad esercitare la patria
potestà”. Sul padre, però, dicono qualcosa in più: “Dinamiche
relazionali padre-figli condizionate dalla volontà del padre di
tenere i figli con sé; insufficienza della casa dei nonni abitata
dai minori”. Insomma: dopo la prima denuncia, Marianna ottiene la
cacciata del marito ma perde anche figli.
La seconda denuncia
E’ del 14 ottobre 2006: due giorni
prima Saverio è arrivato a casa della suocera dove erano i bimbi e
ha cominciato a prendere a calci il portone spaccando il vetro perché
“non è vero che dormono, devo vederli”. I carabinieri, chiamati
sul posto, fanno rapporto. Ma Marianna non dà seguito alla
necessaria querela di parte: è appena stata presentata la richiesta
di divorzio ed è bene – suggeriscono gli avvocati – non
esasperare una situazione già complicata. La denuncia per
danneggiamento muore così.
Quella per ingiurie - la terza
denuncia – è archiviata il 17 aprile 2007 perché “non è stato
ravvisato nulla di penalmente rilevante”.
La quarta querela è del 7 novembre
2006: Marianna denuncia di essere stata picchiata dal marito, ha un
referto di 15 giorni, e che i figli non sono stati portati a scuola.
Nello stesso periodo ci sono le controdenunce del marito perché
“vittima di aggressioni e ingiurie da parte della moglie e dei suoi
genitori”. Il 28 novembre Saverio sarà allontanato da casa, segno
che comunque la situazione creava preoccupazione. I figli però
saranno affidati al babbo.
L’anno nuovo, il 2007, inizia con
quattro querele: il 15, 16 e 17 gennaio e il 2 febbraio. Marianna
dice di non poter andare a casa a prendere le sue cose “per timore
di essere aggredita e delle reazioni spropositate del marito”.
Il 15 marzo ne arriva un’altra:
questa volta Marianna denuncia di essere stata schiaffeggiata, di non
poter aver accesso alle sue cose e di non aver potuto prendere i
figli in consegna come previsto dal giudice.
Il presidente Mangano prosegue con
precisione da laboratorio, dando il dettaglio dell’esito di
ciascuna querela archiviata “per elementi inidonei e insussistenti”
o dove l’imputato veniva assolto più o meno per gli stessi motivi.
Ogni volta, in ogni caso, non è stata possibile l’applicazione
delle misure cautelari.
Si va avanti per pagine e pagine.
“Sino al mese di giugno 2007 – si legge nella sentenza – non
sono rinvenibili i presupposti per affermare una responsabilità dei
magistrati della procura di Caltagirone”. Uno stillicidio di
violenze e pressioni non perseguibili. La giustizia, e gli apparati
di sicurezza e prevenzione, fino a giugno 2007 hanno fatto, sulla
carta, il loro dovere. Anche le perizie psichiatriche dicevano che il
marito era capace di intendere e di volere, non era un
tossicodipendente, entrambi i genitori idonei alla patria potestà.
Per fortuna la giurisprudenza da allora ha fornito giudici e
investigatori di strumenti più idonei a contrastare certe follie (il
reato di stalking).
“L’inerzia dello Stato”
La storia, già di per sé assurda di
Marianna e Saverio e dei loro tre bimbi, cambia però il 2 giugno
2007. “Differente valutazione merita invece la vicenda a decorrere
dal mese di giugno del 2007” scrive la presidente Mangano. E’ la
denuncia numero 10. Quel giorno Marianna va alla stazione dei
carabinieri dove ormai la conoscono benissimo, e racconta di essere
andata a casa e di aver trovato il marito che, appena la vede,
“estrae un coltello a scatto e con aria di sfida lo usa per pulirsi
le unghie delle mani”. E’ un crescendo di minacce perché nei
giorni precedenti il marito, da cui è ormai avviata la procedura di
separazione, “le aveva puntato contro un arco artigianale con una
freccia metallica ricavata da un’antenna”. La freccia era stata
scoccata ed era finita a 50 centimetri dai piedi della donna. Negli
stessi giorni, andando a prendere uno dei figli, il marito “si era
fatto trovare mentre maneggiava lo stesso coltello, a scatto, una
lama di circa 10 centimetri e manico scuro”.
Seguono altre denunce: il 25 luglio
e il 3 settembre, ogni volta compare il solito coltello. “A fronte
delle querele presentate a decorrere dal mese di giugno 2007 –
scrive la presidente – dalle quali poteva razionalmente presagirsi
un intento se non omicida quantomeno di violenza ai danni della
donna, vi è stata una sostanziale inerzia dello Stato”.
Sei coltellate
Il 3 ottobre Marianna Manduca viene
uccisa “con plurime coltellate all’addome e al torace con un
coltello a serramanico con una lama di circa dieci centimetri”. I
carabinieri questa volta non hanno dubbi e vanno ad arrestare
Saverio. Mai delitto è stato più annunciato di quello.
A pagina 25 e 26 della sentenza si
legge: “Il compimento di una perquisizione (ai tempi delle denunce
e mai avvenuta, ndr) avrebbe condotto al rinvenimento del coltello e
al suo conseguente sequestro per porto abusivo di mezzi atti ad
offendere(…)”. E questo “con valutazione probabilistica,
avrebbe impedito il verificarsi dell’evento omicida del 3 ottobre”.
Certo, magari Saverio ci avrebbe provato con altri mezzi e in un
altro momento. Ma quel rischio specifico non è stato evitato per
colpa dell’inerzia dello Stato.
“In materia di violenza domestica –
scrive qualche riga sotto la presidente – il compito di uno Stato
non si esaurisce nella mera adozione di disposizioni di legge che
tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili ma si estende ad
assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva
evidenziando che l’inerzia dell’autorità nell’applicare tali
disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti
di tutela in esse previsti”.
Una sentenza da studiare nelle
università e da mandare a mente in ogni caserma, commissariato e
tribunale.
*questo articolo è stato pubblicato su Tiscali notizie (www.tiscali.it) il 14-7-2017
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